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Contributo di padre Gianfranco Testa.

Fare memoria non è solo ricordare. E’ ricuperare i fatti e il loro senso, ristabilire la verità per assumere un impegno morale. Alla fine della memoria si assume un atteggiamento di rifiuto, al punto di dire “Mai più” oppure un atteggiamento di coinvolgimento per poter dire “Questo non si deve dimenticare, mai”.

Per questo è necessario che ogni tanto, dal momento che siamo predisposti alla dimenticanza, si celebrino delle giornate speciali, magari quando le date hanno un significato numerico che si impone.

Quest’anno ricorrono i 70 anni dalla Liberazione. Una data concordata, ma che non ha per tutti lo stesso significato. Il 25 aprile è simbolico, non reale.

Collegno e Grugliasco hanno vissuto quella data con l’euforia di qualcosa che ormai era inevitabile: la fine delle sofferenze, anche se quella fine si prostrasse ancora per alcune ore e per alcune giornate.

Il trenta aprile apriva una profonda ferita, forse la più profonda proprio perché vicina a quello che doveva essere un respiro di libertà, trasformato in una angoscia terribile per tutta la cittadinanza.

Ma nel risvolto della memoria, che ormai celebra come martiri i morti dell’estrema carneficina, si nasconde un altro ricordo, nato dalla rabbia di quei momenti, quello dell’uccisione di uomini, che avevano il torto di stare dalla parte sbagliata, dalla parte del sostegno a un regime oppressore e a un esercito criminale.

In due giorni, due stragi.

Ormai la storia ha fatto giustizia nel giudicare ognuna di esse, tuttavia diventa difficile celebrare in modo limpido la prima, cercando di dimenticare l’altra, che rimane come un rimorso nell’immaginario collettivo. La prima strage è celebrata come un estremo sacrificio nel cammino della liberazione della patria. La seconda, quella del primo maggio, si può comprendere, ma non giustificare, ha cioè delle ragioni nel clima di emotività del momento, ma non per questo diventa giusta.

Se nei riguardi della prima strage vengono accomunate persone di diverse estrazioni e con diversi percorsi personali, tutti ormai degni di rispetto, nella seconda, nel volto di quegli uomini si leggono il desiderio di vedere finita al più presto la vicenda della guerra con la prospettiva di un ritorno a casa, si vede il terrore e la stordimento di fronte a una reazione incontrollabile.

Di fronte alla morte tutti ci ritroviamo uguali.

Ma oggi, se non vogliamo lasciare il tutto semplicemente in un clima di celebrazione, di commemorazione, che alla fine riempie una giornata che lascia appese alcune corone di alloro senza offrire degli strumenti per la nostra crescita è necessario allargare il discorso.

E’ radicata, nella nostra cultura, una nozione di giustizia, simbolizzata nella bilancia, per cui ad una azione corrisponde una reazione. Se al bene bisogna rispondere con il bene, un’azione negativa viene controbilanciata con una reazione simile.

Rimane allora aperto l’interrogativo, che, partendo dalle tragedie greche, arriva fino ai nostri giorni: “Come castigare un crimine senza commettere un altro crimine”.

Possiamo dirlo senza il pericolo di essere smentiti: non abbiano ancora trovato una risposta efficace.

Pensiamo che la giustizia non ammette il perdono, che l’agire giusto non è assimilabile con l’agire buono. Si tratta di un problema non solo di morale, ma di politica, di storia, di educazione, di formazione della coscienza. Come se la condotta disinteressata, generosa, aperta all’accoglienza dell’altro fosse qualcosa di eroico, che non può essere richiesto a tutti, come se non fosse umanamente obbligante.

In questo caso la nozione corrente di giustizia rappresenta un alibi per operare contro l’altro se lo consideriamo come un competitore o un elemento di intralcio. E allora si giustifica la guerra giusta, la necessità di intervenire con mano dura per mettere fine alle situazioni che creano pericolo o danno al nostro modo di essere.

Non abbiamo mai pensato che, al giorno d’oggi, l’unico modo per liberarci dal terrorismo islamista, dall’infinito scempio commesso contro persone inermi o contro tesori di culture antiche sia quello di mettere in atto una prova di forza definitiva, per contrastare la forza con la forza? E ci sono non poche ragioni per pensare così. Quando si ha a che fare con l’irrazionalità della violenza è inutile ragionare. L’umiltà e la mitezza non hanno niente da spartire con la crudeltà dei violenti spietati. Opponiamo il male al male, alla morte la morte… e in questo modo cadiamo nel tranello, siamo come “loro”, entriamo nella loro logica.

Finiamo per accettare che Auschwitz, i gulag, i genocidi sono parte o almeno non sono per nulla estranei alla nostra cultura.

E’ un’idea che dobbiamo combattere. Essa ci porta a livellare il tutto sul piano dell’emotività, dell’egocentrismo, degli istinti primitivi. Abbiamo il diritto di avere rabbia, ma non di vivere di rabbia. Abbiamo il diritto, in certe situazioni, di desiderare il male dell’altro,. ma non di fare il male all’altro. Si può comprendere una reazione impulsiva, ma non può essere giustificata, cioè resa giusta, quando giusta non è.

Così come non c’è mai una guerra giusta, perché la guerra non accetta aggettivi: sempre è e rimane guerra.

Non ci sono ricette utili o definitive per l’attuale situazione, ma certamente ci sono degli atteggiamenti da evitare e altri da assumere.

Dopo l’undici settembre qualcuno disse che con una guerra preventiva e totale si sarebbe assicurata la tranquillità e la pace mondiale. Dopo quattordici anni non si vedono né sicurezza né pace. Solo si è portata una sofferenza estrema a tanti inermi coinvolti nelle guerre, creando più rabbia e diffidenza.

La nostra coscienza sarà più libera quando ci saremo convinti che il mondo e la società non avanzano a forza di contrapposizioni, per cui dobbiamo identificare un avversario o un nemico per avere l’illusione di darci una identità. Finché procediamo al ritmo di noi e loro (noi contro loro) la costruzione del futuro sarà forse il risultato di una vittoria, ma non di una vera pace.